Con nota del Direttore Generale del Ministero dello Sviluppo Economico, Dr. Gianfrancesco Vecchio, il MiSE, in risposta ad un quesito posto da Fiesa Confesercenti in materia di vendita diretta dei propri prodotti da parte degli agricoltori, inviata anche al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, precisa che è doveroso indicare ai consumatori i prodotti provenienti direttamente dall’azienda dell’imprenditore agricolo rispetto a quelli acquistati presso terzi.
Nella nota, il Dr. Vecchio fa riferimento alla nota di Fiesa del 14 settembre 2016, con la quale l’Associazione dei dettaglianti alimentari ha evidenziato i vantaggi amministrativi, fiscali e “pubblicitari” che i produttori agricoli possono trarre dalle norme che consentono loro di vendere i loro prodotti senza gli adempimenti e gli obblighi previsti per il commercio al dettaglio di prodotti alimentari e sottolineato, in particolare, la possibilità di vendere, nel medesimo ambito ed entro determinati limiti quantitativi, anche prodotti non di propria produzione.
Nella nota, Fiesa, pur prendendo atto, senza condividerla, della normativa di favore che giustifica tale particolare disciplina per i produttori agricoli, ha rappresentato la necessità di un rigoroso rispetto da parte degli stessi dei limiti quantitativi di vendita dei prodotti non provenienti dalle proprie aziende, al fine di evitare situazioni di vantaggio immotivato e di sleale concorrenza nei confronti dei normali esercizi commerciali, nonché l’importanza di una corretta informazione e distinzione in fase di vendita fra i prodotti propri e quelli di terzi, anche a fini di tutela dei consumatori, ponendo in vendita frutta e verdura prodotti direttamente in scomparti separati da quelli acquistati sul libero mercato per la rivendita al pubblico, in modo da rendere immediatamente distinguibile al consumatore i prodotti del contadino rispetto a quelli comprati.
Questo aspetto era stato peraltro già sollevato da un articolo pubblicato sul blog di una delle Associazioni nazionali dei consumatori iscritte nell’elenco tenuto dal MiSE.
Nella sua richiesta di chiarimento la Fiesa aveva interrogato il Ministero sul fatto se, al fine di agevolare i controlli da parte degli Organi di Vigilanza circa la prevalenza della vendita dei prodotti propri dell’imprenditore agricolo rispetto a quelli acquistati presso terzi, oltre che allo scopo di dare evidenza ai prodotti in vendita ricollegabili all’attività di produzione diretta da parte dell’imprenditore agricolo, i prodotti che questi acquisti presso terzi non debbano quanto meno essere collocati in aree o su scaffali separati dai prodotti del proprio fondo, ovvero identificati mediante cartelli o altri mezzi atti ad individuarne la diversa provenienza.
Il Ministero, a questo proposito, ha richiamato, preliminarmente, l’articolo 4, comma 1, del Decreto Legislativo n. 228 del 18 maggio 2001, il quale dispone che: “Gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all’art. 8 della Legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”. Ha fatto altresì richiamo al successivo comma 5, del medesimo Decreto, che recita: “La presente disciplina si applica anche nel caso di vendita di prodotti derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, finalizzate al completo sfruttamento del ciclo produttivo dell’impresa”.
Il MiSE ha ricordato poi che “il comma 8, dispone: “Qualora l’ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti non provenienti dalle rispettive aziende nell’anno solare precedente sia superiore a 160.000 euro per gli imprenditori individuali ovvero a 4 milioni di euro per le società, si applicano le disposizioni del citato Decreto Legislativo n. 114 del 1998”.
Il Direttore Generale, quindi, ha affermato che “Da quanto sopra consegue che effettivamente i produttori agricoli sono legittimati a vendere, senza osservare le prescrizioni del citato Decreto Legislativo n.114 del 1998, anche prodotti non provenienti dai propri fondi (ivi compresi i prodotti alimentari trasformati presso altre aziende agricole, ma anche quelli che risultano oggetto di un ciclo industriale di trasformazione) purché in misura non prevalente e, comunque, entro i limiti di importo fissati, per le diverse tipologie di imprese agricole, dalle suddette disposizioni. In altre parole, per mantenere il vantaggio dell’inapplicabilità delle disposizioni contenute nel Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114, tra le quali anche l’obbligatorietà del possesso dei requisiti professionali per il commercio alimentare al dettaglio di cui all’articolo 71, comma 6, del Decreto Legislativo n. 59 del 2010, è indispensabile contenere entro certi limiti (sia quelli percentuali, relativi alla prevalenza, che quelli assoluti, relativi ai ricavi) la vendita di prodotti non provenienti dai propri fondi”.
Da questo assunto il Direttore del MiSE fa discendere che “Ribadito quanto sopra, con riferimento allo specifico quesito posto relativamente ai prodotti venduti dai produttori agricoli, con particolare riferimento a quelli non provenienti dai propri fondi e pertanto acquistati presso terzi, la scrivente conferma che non esistono norme della disciplina commerciale che impongano ai predetti di adottare modalità di esposizione o di etichettatura che consentano con evidenza all’acquirente di distinguere tra i prodotti provenienti o meno dal proprio fondo, fermo restando che per gli organi di controllo esistono certamente altre modalità ed altri strumenti idonei ad accertare l’effettiva provenienza dei prodotti ed a verificare il rispetto dei limiti di vendita di quelli non provenienti dal proprio fondo”.
Facendo poi riferimento all’articolo 21, del Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206, il quale esplicita i termini e le modalità che contraddistinguono una pratica commerciale ingannevole, il MiSE afferma che “tale disposizione considera una pratica commerciale scorretta non solo quando vengono fornite informazioni non rispondenti al vero, ma anche quanto, seppur le informazioni siano di fatto corrette, la pratica commerciale, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva o per altre omissioni, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più degli elementi caratterizzanti l’acquisto (fra cui sono espressamente indicati l’origine geografica e commerciale) e, in ogni caso lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. E’ evidente a questo proposito, per Fiesa Confesercenti – e il Ministero sembra condividerlo – che il consumatore che entra in un’azienda agricola si aspetta di trovare in vendita i prodotti dell’agricoltore, coltivati e colti direttamente.
Il MiSE pur affermando che, dal punto di vista della normativa vigente, non possono essere imposti un livello di informazioni minime o altri adempimenti positivi che possano tradursi nell’ipotizzato obbligo di utilizzo di scaffalature e attrezzature separate per i prodotti agricoli non provenienti dal proprio fondo, riconosce il pericolo che si concretizza in informazioni false o comunque ingannevoli anche per il contesto, che potrebbe al più consentire una segnalazione all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, per i provvedimenti di competenza, di pratiche commerciali che ad esempio, per le iscrizioni pubblicitarie che enfatizzino il carattere di vendita di prodotti del proprio fondo, eventualmente riportate all’ingresso del punto vendita o sui singoli scaffali, in un contesto in cui all’interno del locale e nei singoli scaffali non siano riportate diverse e più specifiche indicazioni, siano idonee a indurre nel consumatore la convinzione di acquistare prodotti del fondo dell’agricoltore che effettua la vendita anche quando invece gli siano offerti indistintamente in vendita anche prodotti di terzi.
Il Ministero in altre parole riconosce la fondatezza della questione sollevata a difesa dei consumatori e della corretta concorrenza, ma non trova appigli normativi a cui agganciarsi per stabilire una modalità coerente con lo spirito dell’art 21 del D. Lgs. n. 206/2005.
E infatti afferma “….l’opportunità che ai consumatori sia fornita un’informazione chiara e trasparente anche in merito alla effettiva provenienza dei prodotti in questione e, pure ritenendo che tale esigenza risponda non solo all’interesse alla tutela dei consumatori, ma anche ad un’esigenza di tutela della reputazione e di mantenimento della fiducia nell’interesse degli stessi produttori agricoli, si ritiene che tali esigenze … possano essere perseguite … incoraggiando e sensibilizzando gli stessi produttori agricoli, sia da parte delle loro Associazioni di Categoria che da parte dei consumatori e delle loro Associazioni, all’adozione e, in nome della trasparenza e alla luce della necessità del rispetto del rapporto fiduciario che va mantenuto tra acquirente e venditore, della buona prassi di garantire all’acquirente informazione adeguata alla consapevolezza di quali dei prodotti venduti siano effettivamente provenienti dal proprio fondo.”
Il MiSE conclude che le stesse Associazioni dei consumatori potranno inoltre valutare l’eventuale opportunità di iniziative di informazione e formazione dei consumatori per un consumo consapevole che evidenzino anche l’esigenza di informazione circa l’effettiva provenienza del prodotto acquistato presso i produttori agricoli, considerata la legittima possibilità per gli stessi di vendere anche prodotti non propri ed identici a quelli anche industriali presenti negli altri canali di vendita.
In conclusione, il Ministero riconosce che la questione posta è fondata, che effettivamente ci sono gli estremi per rilievi ai fini della concorrenza sleale (tanto che si appella al buon senso dei cittadini consumatori e delle stesse Associazioni degli agricoltori) ma non riesce a trovare la soluzione ad una questione di legittimità della norma, che pertanto rimane aperta come una ferita nel corpo legislativo statuale.
Posizione che non condividiamo perché proprio ai sensi dell’articolo 21, del Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sussistono gli estremi e gli spazi regolamentari per disciplinare meglio e più equamente la materia.
E comunque la nota ministeriale, pur senza risolverla, rilancia la questione a livello istituzionale.