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Assemblea Rete Imprese Italia 2016, la Relazione del Presidente Massimo Vivoli

Illustri ospiti, cari colleghi,

Insieme agli amici Presidenti Giacomo Basso di Casartigiani, Daniele Vaccarino di Cna, Giorgio Merletti di Confartigianato e Carlo Sangalli di Confcommercio, vi do il benvenuto all’Assemblea 2016 di R.E TE. Imprese Italia.

Un ringraziamento particolare va al Ministro Giuliano Poletti e al Sottosegretario Tommaso Nannicini. Porteranno il contributo dell’esecutivo in questo momento di incontro con il nostro mondo.

Un mondo vivo e attivo, composto da milioni di micro, piccole e medie imprese che, come il Dottor De Novellis ci ha appena rappresentato, continuano ad essere l’asse portante dell’economia del nostro Paese. Un elemento fortemente legato al territorio di appartenenza, su cui storicamente si fonda il nostro tessuto imprenditoriale.

Sono imprese ed imprenditori che negli ultimi anni hanno dovuto affrontare sfide formidabili, compiendo enormi sacrifici. Ma sempre animati da un legame forte con il loro lavoro ed il loro Paese, come ha più volte ricordato il Presidente del Consiglio Renzi. Piccole e piccolissime imprese che sono state capaci di continuare a svolgere il proprio ruolo nei centri minori, dove spesso rappresentavano l’unica presenza imprenditoriale, ma anche nelle grandi città e nei territori.

Per l’Italia, la crisi che ha avuto avvio nel 2007 ha rappresentato un vero e proprio punto di svolta storico. Le conseguenze sulla nostra economia continueranno a pesare ancora nei prossimi anni. Basti pensare che, se si fossero mantenuti i trend di crescita del periodo precedente alla grande recessione, fra il 2007 ed il 2015 il PIL Italiano avrebbe cumulato un incremento superiore al 6%. Ed invece, abbiamo registrato una caduta del 9%. Una differenza del 15%, pari a 230 miliardi di euro bruciati dalla crisi.

Una somma elevatissima, che non può che incidere in misura significativa sui bilanci delle famiglie e delle imprese.

In particolare su quelli delle imprese di ridotte dimensioni. I dati ce lo dimostrano chiaramente.

Negli ultimi dodici mesi hanno chiuso ogni giorno oltre 390 imprese.

Una vera e propria strage, dovuta ad una crisi che ha colpito con maggiore durezza la domanda interna, punto di riferimento per gran parte delle PMI.

Che si sono trovate schiacciate tra un mercato interno in stallo e l’aumento del prelievo fiscale, tra il crollo del credito e l’incremento del peso di adempimenti inutili e costosi. Diamo atto all’attuale Esecutivo della volontà di imprimere un’inversione generale di tendenza.

Dobbiamo però registrare che le scelte adottate dal Governo in tema di fisco, con il taglio dell’Irap e del costo del lavoro, hanno inciso in modo diseguale fra piccole e grandi imprese, a vantaggio evidente di queste ultime. Dello stesso taglio dell’IRES, provvedimento più che positivo confermato dal DEF, beneficeranno, infatti, soprattutto le imprese più strutturate.

E’ inevitabile dunque domandarsi: le PMI possono ancora considerarsi il cuore dell’economia italiana?

Le nostre imprese saranno messe in condizione di agganciare pienamente la ripresa e diventare il volano di una nuova, attesa fase di sviluppo del Paese? Sono domande alle quali, oggi, vorremmo poter dare una risposta positiva.

Sulle possibilità di successo delle micro, piccole e medie imprese italiane, infatti, gravano problemi del Sistema Paese che costituiscono delle vere e proprie barriere alla ripartenza.

L’Italia è indiscutibilmente un Paese di piccole e medie imprese, che però troppo spesso per la politica restano invisibili. Ancora peggio: quando tornano ad essere visibili, è per provvedimenti che non le aiutano.

Dal punto di vista infrastrutturale, in particolare, il nostro Paese non può certo considerarsi attrezzato per sostenere le imprese di minori dimensioni.

Per non parlare del peso della burocrazia, che costa alle imprese circa 6 miliardi di euro ogni anno.

Ed anche sul fronte del credito, esiste un’evidente barriera: da novembre 2011 a dicembre 2015 la disponibilità di credito per le PMI di commercio e turismo si è ridotta di 15 miliardi di Euro; per quelle dell’artigianato di 12 miliardi.

Ma non è tutto. Non solo le micro, piccole e medie imprese hanno maggiori difficoltà di accesso al credito, ma lo pagano anche circa il 2,5% in più.

Anche Moody’s, nel suo rapporto sulla salute delle piccole e medie imprese europee, ha sottolineato le condizioni di debolezza in cui versano attualmente quelle italiane. Confermate dal triste record del più alto numero di fallimenti nel Vecchio Continente dal 2008 ad oggi. C’è bisogno di una radicale e immediata inversione di tendenza.

Le PMI devono tornare al centro dell’agenda di politica economica.

Anche perché senza il contributo di questo vasto universo, non arriveremo mai ad agganciare una piena ripresa. In primo luogo nel mercato del lavoro.

Non si può ignorare che il 90% dell’occupazione in Italia sia distribuito in aziende con meno di 250 addetti. Né che nel corso della crisi, le micro imprese, quelle cioè con meno di 10 addetti, che già assorbono circa un terzo dell’occupazione italiana, siano state le uniche ad incrementare i posti di lavoro: 375mila posti in più fra il 2011 e il 2015. E senza interventi dedicati.

Dobbiamo abbandonare i pregiudizi e puntare con decisione sulle PMI, anche per rafforzare l’export e l’impulso alla modernizzazione della nostra economia.

Globalizzazione e digitalizzazione, infatti, saranno – e già sono – motori fondamentali per la crescita.

Le PMI Italiane testimoniano infatti che la dimensione di impresa non è un requisito indispensabile per l’internazionalizzazione.

Lo dimostrano i dati che abbiamo portato alla vostra attenzione.

Le realtà di minori dimensioni già contribuiscono in maniera significativa al nostro export, nel quale operano 180.000 imprese italiane al di sotto dei 50 dipendenti.

In questa fascia superiamo i risultati dei nostri omologhi tedeschi e francesi.

Non solo: in questi anni difficili, le imprese di minori dimensioni hanno dimostrato anche di aver compreso l’importanza della digitalizzazione, con il risultato di rendere più produttive le realtà che l’hanno adottata.

Nella digitalizzazione le PMI italiane, e questa è una sorpresa, non sfigurano nel confronto con le analoghe degli altri Paesi europei.

Un dato ancora più significativo se si considera che, purtroppo, in fatto di innovazione il nostro Paese registra, in tutti i settori, un ritardo clamoroso rispetto al resto d’Europa.

Alla luce di queste considerazioni, appare più che mai legittima la richiesta delle piccole e medie imprese di ritornare al centro dell’agenda del Governo. E noi abbiamo proposte concrete per rispondere a questa richiesta: un piano in sei punti per il rilancio di questo mondo.

*       *       *

Primo punto: non è più rimandabile l’attuazione reale e completa dello Statuto delle Imprese, in tutte le sue parti, rendendolo finalmente uno strumento operativo.

Quando è stato introdotto, 5 anni fa, è stato salutato con entusiasmo e visto come l’atteso riconoscimento del ruolo delle micro, piccole e medie imprese. Purtroppo, però, le cose non sono andate come speravamo.

La sua efficacia è andata diminuendo di anno in anno, e molte sue parti sono rimaste lettera morta.

Penso, ad esempio, alla legge annuale sulle PMI.

Si è ignorato anche l’obbligo di valutare l’impatto sul sistema delle imprese delle iniziative legislative, anche di natura fiscale, prima della loro adozione.

La non operatività di parti importanti dello Statuto delle imprese ha permesso il succedersi di norme che hanno creato ulteriori problemi.

Come la deregulation degli orari di apertura degli esercizi commerciali. Ma anche l’istituzione del Sistri e della tassa di soggiorno. Per non parlare della continua revisione delle modalità di calcolo della tassa per lo smaltimento dei rifiuti.

Rimane di fatto inattuata pure l’Agenzia delle Imprese.

Insomma, lo Statuto delle Imprese sta facendo la stessa fine dello Statuto del Contribuente, un’altra novità importante, molto apprezzata in occasione della sua introduzione, ormai quindici anni fa. E da allora derogata oltre 500 volte.

Secondo punto: dobbiamo risolvere la questione fiscale.

Serve una riforma che riduca sensibilmente la pressione fiscale sui cittadini e su tutte le imprese, di qualsiasi dimensione esse siano.

E che introduca la detraibilità delle spese per l’adeguamento alle nuove normative.

Lo stesso Premier, pochi giorni fa, ha ammesso che il prelievo fiscale, in Italia, è ancora troppo elevato. Lo è in particolare, aggiungo io, per le piccole imprese.

L’incidenza del peso delle tasse sulle PMI supera il 61%. In media, le sole imposte locali costano alle PMI oltre 11mila euro l’anno.

Per tagliare le tasse, ovviamente, bisogna trovare risorse.

Ma noi crediamo che sia possibile, attraverso le risorse recuperate dalla riqualificazione della spesa pubblica e dal necessario riordino delle spese fiscali.

Vanno usate anche le risorse recuperate dal contrasto all’evasione fiscale: non era anche questo già stato stabilito?

In questo Paese il problema non è solo che si pagano troppe tasse, ma che è difficoltoso e costoso adempiere a questo dovere.

Oltre ad abbassare la pressione fiscale, vanno resi più semplici e chiari gli adempimenti. Anche attraverso l’uso dei nuovi strumenti telematici.

Penso ad esempio alla fatturazione elettronica e all’invito telematico dei corrispettivi.

Se ben implementati, non solo potrebbero abbattere gli oneri impliciti gravanti sulle imprese, ma renderebbero obsoleti gli studi di settore.

Potrebbero dunque essere la base di nuove forme di compliance.

Il terzo punto è mettere in campo, anche attraverso i Confidi, strumenti che riescano a ridare credito al sistema delle imprese e facciano da moltiplicatore della politica monetaria della BCE. A questo proposito, maggiore dovrebbe essere l’impegno del Governo per una più efficace armonizzazione con le normative europee.

Vanno ridisegnati i rapporti tra garanzia pubblica e privata, essendo l’attuale meccanismo troppo focalizzato sulla prima a scapito della seconda.

Ma deve essere messo in atto anche un riequilibrio tra i soggetti destinatari degli interventi del Fondo di Garanzia (Banche e Confidi) agli effetti della politica degli incentivi.

Va inoltre accelerata la Riforma legislativa dei Confidi, che produca effetti anche sulla semplificazione delle incombenze e sui criteri di vigilanza. Andranno individuate soluzioni per le sofferenze dei Confidi, anche all’interno del Fondo Atlante, in quanto le sofferenze delle Banche sono, in parte, garantite dai Confidi.

Il quarto punto è la riduzione del carico regolatorio che grava sulle imprese. Un intervento necessario per creare un contesto economico più favorevole alle imprese.

I problemi legati ai rapporti con la burocrazia generano notoriamente costi amministrativi eccessivi.

Nel caso italiano, questi sono ben superiori a quelli che si riscontrano nelle altre economie avanzate.

L’aspetto del carico amministrativo diviene poi ancora più rilevante nelle situazioni in cui l’innovazione tecnologica determina nuove modalità di fornitura del servizio. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’e-commerce.

Le imprese si ritrovano così da una parte a subire gli effetti dell’eccesso di burocrazia, dall’altra a risentire della concorrenza di soggetti che non sono tenuti a rispettare la stessa normativa.

Il quinto step è la richiesta di lanciare un “piano d’azione” per le PMI e gli imprenditori.

Un piano che, alla stregua di quanto fatto con il Jobs Act per il lavoro dipendente, li sostenga nella transizione alla digitalizzazione e nell’implementazione dei processi di internazionalizzazione.

La politica del Governo in materia di lavoro ha mirato nel corso degli ultimi due anni a privilegiare la transizione verso un modello basato sui rapporti di lavoro stabili. La strategia ha funzionato, e l’impegno economico di queste misure è significativo: circa 20 miliardi di euro concentrati sulla platea del lavoro dipendente.

Occorre ora una normativa a sostegno del lavoro indipendente. Un investimento di 5 miliardi, pari a un quarto di quello destinato ai lavoratori dipendenti, per i piccoli imprenditori, collaboratori e lavoratori autonomi, che formano un quarto della nostra occupazione privata e che sono molto spesso giovani e donne.

A questo proposito, assume forte importanza la tematica della transizione all’economia digitale, per la quale la nostra economia è ancora indietro, a cominciare dalle reti infrastrutturali.

Per favorire una “digitalizzazione di massa” delle PMI, vanno previste forme di accompagnamento ed incentivo.

Servono per la qualificazione e riqualificazione delle competenze degli imprenditori e per attivare processi virtuosi di formazione continua, come è stato fatto, appunto, nei confronti dei lavoratori dipendenti. Andrebbe attivato anche un sistema di voucher o crediti formativi, che gli imprenditori potrebbero utilizzare a questo scopo.

Il tema della formazione ci sta particolarmente a cuore.

Crediamo fortemente che la conoscenza sia alla base del recupero di competitività necessario perché il Paese ritorni a correre. Per questo chiediamo un investimento sul futuro. Ogni anno, centinaia di migliaia di giovani tentano la via dell’impresa.

Molti con passione ed entusiasmo.

Tanti, troppi, per creare quel posto di lavoro che, per loro, non c’è.

In un mercato globalizzato e competitivo come quello attuale, però, non è più possibile improvvisarsi imprenditori.

Senza una formazione mirata, questi ragazzi e queste ragazze sono condannati al fallimento, dopo aver bruciato tempo, risparmi e investimenti.

La formazione appare ancor più necessaria per l’avvio di nuove imprese da parte dei giovani.

Se vogliamo davvero dare una prospettiva al nostro Paese, dobbiamo investire sulla formazione dei giovani nuovi imprenditori, con l’acquisizione dei crediti formativi. Un intervento che porterebbe, nel lungo periodo, ad un incremento della competitività del nostro Paese.

Il tema della formazione per i giovani nuovi imprenditori ci porta alla nostra sesta, ed ultima proposta: istituire un sostegno alle nuove imprese per traghettarle verso il consolidamento, aumentandone il tasso di sopravvivenza, attraverso un piano di riduzione delle imposte per i primi anni di vita.

Bisogna estendere i provvedimenti di fiscalità agevolata a tutte le nuove imprese.

Prevedere contributi non solo agevolati, ma anche a fondo perduto per le spese generali di avvio, oltre a iniziative volte a ridurre drasticamente i ritardi di pagamento della Pubblica Amministrazione.

A queste vanno aggiunte altre misure che possono favorire l’apertura di nuove attività da parte di imprenditori che hanno già sperimentato una chiusura.

Si tratta di evitare che prevalga un effetto di scoraggiamento da parte dell’imprenditori, o di stigma da parte del contesto esterno, per cui al fallimento di un’iniziativa imprenditoriale non è detto non possano seguire nuove iniziative da parte dello stesso imprenditore.

E’ il tema cosiddetto della “seconda opportunità”, sul quale da tempo insistono anche le autorità europee.

Abbiamo di fronte un percorso complesso, ma al quale non possiamo rinunciare. Siamo convinti che queste proposte, se implementate, potrebbero dare un impulso significativo alle micro, piccole e medie imprese e all’economia italiana tutta.

Delineano un percorso complesso e ambizioso, ma irrinunciabile. Il Paese sta provando a ripartire, ma non può farcela se le imprese resteranno a terra. Il Governo deve cogliere la buona volontà, la reattività e le capacità di questo mondo e puntare con convinzione su di noi, sostenendolo e creando le condizioni perché possa davvero risollevarsi. Solo così trasformeremo questo inizio di ripresa in un vero ritorno alla crescita.

Il Presidente del Consiglio ha affermato che il Governo si occuperà del sostegno delle partite IVA. Una notizia che attendevamo ed alla quale replichiamo: “Bene, molto bene”. Continueremo ad avere un atteggiamento costruttivo, collaborativo e, quando sarà necessario, anche critico, ma soltanto per ottenere la giusta attenzione sulle tante, troppe urgenze delle imprese. Imprese che attendono risposte.

Grazie a tutti.